«Rispetto e fatica: così nascono i nostri vini»

di Luca Canini
Michele Loda nel suo vigneto di Monticelli Brusati che dall’alto del Dosso domina la FranciacortaMichele Loda, «Il Pendio»
Michele Loda nel suo vigneto di Monticelli Brusati che dall’alto del Dosso domina la FranciacortaMichele Loda, «Il Pendio»
Michele Loda nel suo vigneto di Monticelli Brusati che dall’alto del Dosso domina la FranciacortaMichele Loda, «Il Pendio»
Michele Loda nel suo vigneto di Monticelli Brusati che dall’alto del Dosso domina la FranciacortaMichele Loda, «Il Pendio»

Cinque ettari in tutto. Uno a bosco, uno a oliveto e tre a vigneto. A picco sulla Franciacorta, aggrappati miracolosamente a un anfiteatro naturale che dal Dosso di Monticelli Brusati, in fondo a via Panoramica (mai nome fu più azzeccato), strizza l’occhio alla chiesetta di San Michele, al Montorfano e giù più in basso alla pianura. Terra magra quella del Dosso, scorbutica, impastata di pietre e sferzata quasi sempre dal vento. Terra che Michele Loda, titolare dell’azienda agricola «Il Pendio», coltiva e accudisce ormai dal 2003. Prima sulle tracce del pioniere Gigi Balestra, arrivato ai 450 metri del Dosso negli anni Ottanta, poi ostinatamente da solo. Più che una vocazione, una radicale conversione. È vero. Vivo a Ospitaletto e ho lavorato come responsabile commerciale di una grande azienda. Vendevo le ruote dei treni e i carrelli dei vagoni in tutto il mondo. Poi, già sposato e con due figli, ho sentito che dovevo cambiare. Non è stata una scelta semplice. Ne ho parlato con mia moglie, lei mi ha guardato e mi ha detto: «O lo fai adesso, o non lo farai mai più». Non è stata una passeggiata però trovare il Dosso. Per niente. Cercavo qualcosa a misura d’uomo, ma da Gigi Balestra ci sono arrivato per un caso strano. Ero in Toscana, a cena da un amico, e con noi a tavola c’era Gino Veronelli, che quella sera mi parlò di un olio prelibato che aveva assaggiato in Franciacorta. Si ricordava solo del sapore dell’olio e del fatto che l’oliveto era su una collina. Mi ci sono voluti sei mesi per trovare «Il Pendio». I primi passi sotto l’ala di Gigi Balestra, poi il grande salto. Ricordo ancora la sera che sono entrato per la prima volta in cantina: Gigi era seduto da solo al tavolo sotto il portico. Abbiamo parlato, mi ha fatto assaggiare il suo Chardonnay fermo da una barrique, e dopo il primo sorso gli ho detto che ero pronto a iniziare a lavorare per lui anche subito. Nel 2005 la prima annata firmata solo Michele Loda. Sono passati meno di 15 anni, eppure sembra di parlare di un’altra epoca. Allora non c'erano disciplinari bio, non c'era niente; si provava, si sperimentava. Nel giro di tre o quattro annate ero completamente pulito: niente chimica, niente chiarifiche, niente filtraggi. Solo il vino. Non dosato, maturato sui lieviti e affinato più a lungo in bottiglia che in botte. L’alpinista Walter Bonatti diceva che nello sfidare le montagne si deve levare tutto quello che non è necessario, e lasciare che sia la natura a dirci dove bisogna fermarsi. Io lavoro così. Franciacorta uguale bollicine. Il mercato indirizza, impone, soffoca, cementando anche i luoghi comuni. Ma un’altra Franciacorta è possibile? «Il Pendio» è l’unica azienda che non è mai stata nel Consorzio. E non perché io abbia qualcosa contro il Consorzio. È una questione di coerenza con le scelte fatte, di rispetto della tipicità del vino che produco. Poi ovviamente le bollicine ci sono. Ho tre etichette: il Contestatore e il Brusato, a base di Chardonnay, e il Rosè, che invece è a base di Pinot Nero. Poi c’è lo Chardonnay fermo, l’Etichetta Nera, che però non sono più riuscito a fare dal 2013, così come il Pinot Nero vinificato in rosso, che ho messo in pausa per reimpiantare il vigneto. Etichetta Rossa e Beccaccia sono invece i rossi fermi a base di Cabernet Franc. Cambiano le annate, e con le annate cambiano i vini. L’idea di base è semplice: tentare di tirare fuori il meglio da ogni annata. Ho la fortuna di avere un grande cru e penso di essere riuscito a trovare il modo di interpretarlo, restando sulle 15-18mila bottiglie all’anno e producendo metà dell’uva rispetto al massimo consentito dal disciplinare. Ovviamente al netto degli imprevisti. Come la grandinata del giugno scorso, che si è mangiata l’85% del raccolto. Ma questo è il mestiere. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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