Cinghiali, Broletto e Regione sotto inchiesta

di Paolo Baldi
La «mala gestione» dei cinghiali diventa un caso giudiziario
La «mala gestione» dei cinghiali diventa un caso giudiziario
La «mala gestione» dei cinghiali diventa un caso giudiziario
La «mala gestione» dei cinghiali diventa un caso giudiziario

C’è una bomba giudiziaria nell’estate bresciana. Una bomba la cui esplosione era attesa da tempo e che ha investito otto tra pubblici ufficiali, amministratori pubblici e funzionari finiti sotto inchiesta per una presunta gestione fuori da leggi e regolamenti dell’ormai famoso «problema cinghiali». Giovedì prossimo, il Gip Cesare Bonamartini avvierà gli interrogatori a carico del comandante della Polizia provinciale Carlo Caromani, dei suoi ufficiali Dario Saleri e Gianluca Cominini, dei dirigenti attuali e passati dell’Uf- ficio territoriale regionale Giulio Del Monte e Alberto Cigliano, del tecnico dell’ex Ufficio Caccia del Broletto Raffaele Gareri, del presidente (ora in minoranza, come annunciato da Bresciaoggi) dell’Ambito territoriale unico di caccia Oscar Lombardi e del presidente della Provincia Pierluigi Mottinelli. Pesanti i reati ipotizzati dopo mesi di accurate indagini dei carabinieri forestali della stazione di Vobarno: uccisione di animali, peculato e inquinamento ambientale. È l’evoluzione giudiziaria di un capitolo aperto dalla Lega per l’abolizione della caccia, che denuncia da tempo l’illegalità e l’assenza di scientificità delle campagne di riduzione a fucilate della specie, che giorni fa ha trovato una «spalla» nel Tar di Brescia, i cui giudici hanno sospeso (su richiesta della stessa Lac) il decreto regionale che autorizzava gli abbattimenti e che l’anno scorso aveva indirettamente messo in moto la macchina delle indagini segnalando proprio ai carabinieri forestali l’uso commerciale (illegale) della carne di ungulati eliminati dai piani di contenimento nella sagra del cinghiale di Toscolano. DA QUEL momento i militari di Vobarno hanno passato in rassegna leggi e regolamenti e raccolto prove in serie di violazioni delle norme, coordinati dal pm Ambrogio Cassiani, il quale - dopo aver chiuso il fascicolo trasmesso al Gip - ha chiesto la sospensione cautelare dal servizio di tutti i funzionari elencati a parte il presidente provinciale (la cui carica è elettiva). Il quadro accusatorio parte dal presupposto che per legge la carne di animali abbattuti in piani di controllo non può finire sui tavoli di una sagra, ma deve essere messa all’asta, e il ricavato va utilizzato per ripagare i danni causati da quella stessa specie. Sembra invece che finora la Regione e la Provincia, sempre pronte a sottolineare la carenza di fondi, abbiano omesso di ricordare questa pratica obbligatoria, seguita (non sempre) nel Bresciano solo nel Comprensorio di caccia C8 e nell’Atc 1. Ma l’illegalità contestata nasce dalla scelta stessa degli abbattimenti, ed ecco spiegato il reato di uccisione di animali, che si configura quando avviene una soppressione immotivata. La legge quadro nazionale sulla caccia dice che prima di tutto bisogna applicare metodi di contenimento ecologici sulla base di un parere dell’Ispra, e solo quando lo stesso Ispra ne ha eventualmente verificato l’inefficacia si può passare al fucile. QUESTO a Brescia non è mai avvenuto. Si naviga a vista. Basta constatare che durante la normale stagione di caccia si prevede l’abbattimento fino al 98% degli esemplari censiti in primavera, e che a questa quasi totalità si sommano i piani di contenimento? Ma quanti cinghiali ci sono, visto che si ipotizza di ucciderne più di quelli contati? Non solo: una volta avallata (dalla scienza, non dalla politica) una campagna di riduzione, sempre per legge questa deve essere attuata da agenti pubblici, ovvero dalla Polizia Provinciale, affiancati eventualmente dai proprietari dei fondi interessati; non dai cacciatori. Sul territorio bresciano, invece, si sono viste in movimento squadre di anche 80 cinghialai armati al di fuori della stagione di caccia e in azione anche di notte. La contestazione degli illeciti passa anche dalla sorte delle carcasse; regalate ai cacciatori e spesso macellate in proprio violando anche il regolamento comunitario 853 che impone, nel caso di piani di abbattimento, la macellazione in centri di lavorazione della selvaggina (esistenti nel Bresciano), controlli veterinari e un’analisi sanguigna per escludere la presenza della trechinella, un nematode potenzialmente molto pericoloso per la salute umana. Proprio la cessione delle carcasse ha fatto ipotizzare il reato di peculato, perché l’ente pubblico si sarebbe appropriato di un bene che appartiene allo Stato e perchè chi lo ha avuto in consegna ci ha forse guadagnato, mentre la già citata insussistenza scientifica della scelta del fucile (sottolineata dal Tar) ha fatto scattare anche l’accusa di inquinamento ambientale. Il reato si estende alla fauna selvatica, e si manifesterebbe in questo caso con la dimostrata, ulteriore proliferazione dei cinghiali sottoposti alla caccia: l’effetto delle battute è la frammentazione di gruppi consolidati, con una conseguente forte riproduzione che vanifica l’obiettivo stesso degli spari. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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