«Ho perdonato i miei carcerieri per non essere ostaggio dell’odio»

di Nello Scarpa
L’industriale di Manerbio affacciato dallo storico  palazzo Ghirardi pochi giorni dopo il suo rilascio
L’industriale di Manerbio affacciato dallo storico palazzo Ghirardi pochi giorni dopo il suo rilascio
L’industriale di Manerbio affacciato dallo storico  palazzo Ghirardi pochi giorni dopo il suo rilascio
L’industriale di Manerbio affacciato dallo storico palazzo Ghirardi pochi giorni dopo il suo rilascio

«Se non avessi perdonato i miei sequestratori sarei ancora in ostaggio di odio e rancore. Quando spengo la luce alla sera, mi addormento subito. L’incubo di quegli interminabili giorni trascorsi vivendo come una bestia tra le bestie non mi ha mai perseguitato perchè appena libero ho voltato pagina. L’ho fatto perchè sono un credente, ma soprattutto l’ho fatto per tornare a vivere». COSÌ GIUSEPPE Soffiantini, pochi mesi fa, ricordava in un’intervista rilasciata a Bresciaoggi la terribile esperienza del rapimento. «Il ritorno alla normalità è stata la mia salvezza: il sentimento di vendetta non mi è mai appartenuto, e ad ogni modo non sarebbe servito a rimarginare le ferite, anzi le avrebbe tenute aperte. Il perdono non significa però l’indulgenza nei colpevoli, perchè solo con l’espiazione della pena c’è un riscatto umano e morale - aveva spiegato l’industriale tornando a gettare lo sguardo sul passato -. Paradossalmente, io ho quasi dimenticato, ma la gente no. Ci sono persone che a Manerbio si ricordano perfettamente dove erano e cosa stavano facendo quando è stata diffusa la notizia del sequestro e quando hanno appreso del rilascio. Significa che il rapimento ha segnato la comunità, e quando mi hanno rilasciato è stato come se finisse una guerra». Quell’accoglienza scandita da gioia, solidarietà e affetto «ancora oggi mi viene riservata in tante occasioni - raccontava l’imprenditore -. Sono trascorsi quasi 20 anni e mi arrivano ancora attestati di solidarietà dalla gente comune che incontro per strada». Soffiantini era tornato anche sulla morte di Samuele Donatoni: «Quella tragedia mi ha provocato un profondo dolore», aveva spiegato accettando di raccontare il suo sequestro, un’odissea iniziata il 17 giugno del 1997. «Erano le 22,30 ed io e mia moglie ci ritrovammo davanti quelle persone. Ero sorpreso, più che impaurito. Potevo immaginarmi una rapina, ma mai avrei creduto di essere l’obiettivo di un sequestro». E in verità l’obiettivo era il figlio Paolo. «All'epoca faceva il servizio militare, e quella sera aveva deciso di rientrare in caserma un'ora prima del solito. Altrimenti avrebbero preso lui - aveva spiegato Soffiantini -. Legarono Adele e la rinchiusero in un sottoscala». Prima di andarsene con l'ostaggio, i banditi cercarono di tranquillizzare la moglie delll’industriale: «Non ti preoccupare, te lo faremo ritrovare». Passeranno invee 237 interminabili giorni. È il 9 febbraio 1998, quando alle 21 Soffiantini chiama casa da Impruneta, alle porte di Firenze: «Sono libero, venitemi a prendere», urla di gioia. «Avevo mantenuto la calma per tutto il sequestro, ma in quel momento il mio cuore aveva cominciato a battere all’impazzata - aveva raccontato Soffiantini -. In quella telefonata avrei voluto dire alla mia famiglia tutto quello che mi ero trattenuto dentro per otto mesi. Quei chilometri tra Firenze e Manerbio mi sono sembrati un’eternità». Dopo la liberazione, l’industriale era tornato alla normalità. «Ho continuato a fare la mia solita vita, diminuendo l’impegno in azienda - aveva raccontato a Bresciaoggi -. La famiglia per me è sempre stata importante, ma ho moltiplicato il tempo dedicato a mia moglie, ai miei figli e a miei nipotini. Ho vissuto molto intensamente e ho lavorato tanto nella mia vita, forse il sequestro mi ha consigliato di rallentare. Se mi ha fatto fare un bilancio della mia esistenza? In un certo modo sì, anche perchè ci sono momenti in cui ho pensato di non farcela. Ho pregato e pensato al prossimo senza perdere la serenità. Vede, il mio ruolo di imprenditore mi ha costretto a volte a fare delle scelte che magari possono essere state penalizzanti per qualcuno, ma non ho mai perso di vista l’etica e la morale. Alla mia età, più che misurare quello che ci ha dato o tolto la vita, c’è solo il tempo di rammaricarsi che sia passata così in fretta». •

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